«Epicondilite» e tecar: cinque passaggi chiave per definire una strategia terapeutica efficace
In questo articolo partiamo dalla cosiddetta “epicondilite” per inquadrare il più ampio campo applicativo delle tendinopatie indicando cinque punti fondamentali da seguire e cinque errori comuni da evitare in caso di “epicondilite” trattata con un dispositivo tecar.
“Epicondilite” in poche parole
Nonostante ciò che dovrebbe suggerire il termine epicondilite, spesso si usa per identificare in modo generico uno stato doloroso localizzato nella zona dell’epicondilo. In realtà parlare in modo generico di “epicondilite” può essere fuorviante in quanto non descrive in modo sufficientemente preciso quello che sta accadendo realmente nei tessuti prossimi all’epicondilo. Per definire un trattamento preciso sarà quindi utile identificare quali tessuti o distretti stanno generando la sintomatologia dolorosa e in particolar modo capire se sia realmente in atto un processo infiammatorio.
Eziologia
L’eziologia (l’origine) è multifattoriale e può quindi dipendere da diverse cause difficilmente isolabili. Solitamente l’identificazione di questa sindrome è clinica, ovvero si basa su una visita specialistica che ne delinea la condizione. Un esame ecografico può essere utile a comprendere meglio le cause dei sintomi e delineare quindi un programma di trattamento più preciso.
Bibliografia che ci sentiamo di consigliare
Sei vuoi approfondire le definizioni e la classificazione delle diverse condizioni cliniche in cui si può declinare un’epicondilite ti consigliamo di consultare questi studi reperibili su PUBMED:
- Lateral epicondylitis of the elbow; Vaquero-Picado A, Barco R, Antuña SA. 2016
- Lateral epicondylitis of the elbow; Tosti R, Jennings J, Sewards JM. 2013
- Medial epicondylitis: evaluation and management; Amin NH, Kumar NS, Schickendantz MS; 2015
- Diagnosis and treatment of medial epicondylitis of the elbow; Ciccotti MC, Schwartz MA, Ciccotti MG; 2004
- Tendon injury and tendinopathy: healing and repair. Sharma P, Maffulli N. 2005
“Tecar” in poche parole
Il trasferimento energetico/elettrico capacitivo resistivo è uno strumento di terapia fisica strumentale che impiega un campo elettromagnetico nell’intorno degli 0.5 Mhz per trasferire energia al tessuto corporeo. L’energia trasferita ha lo scopo di innescare risposte endogene e fisiologiche all’interno del tessuto potenzialmente utili in molte condizioni cliniche.
Le risposte che questo strumento è in grado di generare in base alla letteratura scientifica si possono raggruppare in termiche e non termiche.
Le elenchiamo brevemente: incremento della perfusione sanguigna e del microcircolo, vasodilatazione, incrementi di temperatura, supporto al drenaggio dei liquidi in eccesso, supporto alla rigenerazione del tessuto funzionale.
L’operatore, nella maggior parte dei casi il fisioterapista, decide quale reazione stimolare in base alla condizione clinica che si trova davanti e può farlo in base alla quantità di energia trasferita, più precisamente in base alla densità di energia trasferita per quantità di tessuto trattato. Questo è un elemento da considerare sia per i cinque punti da seguire sia per i cinque errori da evitare quando si tratta una “epicondilite” con un dispositivo tecar.
Tecarterapia e dispositivo tecar
Il termine “tecarterapia” è una parola di consuetudine per identificare la terapia compiuta attraverso uno strumento tecar. In realtà il concetto di tecarterapia è molto generico e può essere fuorviante.
Dato che lo strumento è in grado di stimolare reazioni diverse in base alle densità di energia, la terapia vera e propria è svolta dall’operatore che decide quale risposta tessutale innescare, conformemente alla condizione clinica. Non tutte le risposte infatti sono sempre indicate per tutte le condizioni cliniche. Un esempio tipico è l’incremento di temperatura che a volte risulta molto efficace per ridurre certi tipi di dolore mentre è controindicato in condizioni di infiammazione acuta dove invece sarebbe più utile accelerare l’omeostasi termica e il drenaggio.
Fortunatamente certi modelli tecar danno all’operatore la possibilità di scegliere quale reazione applicare. Parlare ad esempio di 3 sedute di tecarterapia è quindi molto generico. Per descrivere la terapia bisognerebbe associare le risposte specifiche alla porzione di tessuto che le necessitano. Sarebbe meglio descrivere “la tecar” come uno strumento utile a innescare risposte endogene e non come una terapia in sé.
Cinque errori comuni in caso di “epicondilite” trattata con tecar
Tecar ed epicondilite: cinque errori comuni
Ancor prima di parlare dei passaggi chiave, partiamo elencando cinque errori comuni da evitare quando si tratta un caso di “epicondilite” con un dispositivo tecar:
1- Pensare che “la tecar“o la “tecarterapia” si sostituisca al terapista:
il ruolo dell’operatore è fondamentale per capire la diagnosi, completare il quadro clinico e rendere completa la terapia. Le mobilizzazioni e le tecniche manuali ortopediche e mio-fasciali sono utilissime da combinare con gli effetti dello strumento per accelerare la risoluzione del problema.
2- Trasferire energia in modo indistinto senza considerare le diverse reazioni disponibili:
a seconda della condizione clinica, sarà necessario supportare il drenaggio in caso di edema, usare l’incremento di temperatura per ridurre il tono muscolare periferico e interrompere la stasi circolatoria, supportare la rigenerazione del tessuto se ci troviamo in una condizione degenerativa. Se trasferiamo in tutte le porzioni di tessuto gli stessi livelli di energia innescheremo risposte imprecise e nella migliore delle ipotesi arriveremo ad un risultato clinico subottimale.
3- Innescare la risposta sbagliata nel punto sbagliato:
se oltre a non considerare le diverse risposte necessarie nelle diverse porzioni di tessuto, ci limitiamo ad incrementare la temperatura e magari lo facciamo in un distretto infiammato, corriamo il rischio di un effetto rebound. Sarebbe come suggerire ad un paziente che soffre di epicondilite laterale con infiammazione acuta del peritenonio dell’estensore radiale breve del carpo, di fare una bella partita a tennis…
4- Non trasferire sufficiente energia per innescare la risposta desiderata:
In fisica, non solo in ambito tecar, per innescare una risposta serve applicare una quantità di energia sufficiente a farlo. Se dobbiamo sollevare da terra per 50cm un tavolo di 40kg avremo bisogno di una certa quantità di energia per farlo. Se non siamo in grado di applicare una forza che superi i 40kg e non siamo in grado di mantenere questa forza per il tempo necessario a sollevare il tavolo di 50cm da terra, non saremo in grado di raggiungere l’obiettivo.
In terapia questo si traduce con una certa quantità/soglia di energia da trasferire al tessuto per innescare la reazione che ci serve. Se vogliamo ad esempio incrementare la temperatura di 1kg di tessuto, di 1 grado centigrado, avremo bisogno di circa 3.600 Joule. Applicare quindi quantità di energia non sufficiente ad innescare la risposta desiderata equivale a non fare terapia.
5- Lasciare che tanta energia venga dissipata in calore a livello della cute senza raggiungere il tessuto più profondo
Oltre alle quantità di energia per quantità di tessuto va considerato come questa energia si distribuisce all’interno del tessuto stesso.
Senza dover fare calcoli astrusi poco affidabili, esiste un elemento fondamentale per accorgersi se qualcosa non sta andando come dovrebbe: l’eccesso di calore superficiale. Quando ci accorgiamo che la temperatura della cute incrementa molto ed il paziente si lamenta perche l’elettrodo (o ancora peggio la piastra di ritorno) “scotta”, è un segnale di allarme che dobbiamo prendere in considerazione. Significa che l’energia che stiamo trasferendo con lo strumento “dissipa” in modo eccessivo sulla cute e sta raggiungendo solo in piccola parte le porzioni di tessuto più profondo.
Fortunatamente vi sono dei modelli tecar che permettono di evitare questo problema anche quando si sta trasferendo una grande quantità di energia.
Cinque passaggi chiave per definire una strategia di trattamento efficace in caso di “epicondilite” trattata con tecar
Uno degli errori più comuni che si compiono nel definire un programma di trattamento è quella di saltare uno dei passaggi fondamentali della definizione della strategia terapeutica.
Se infatti i trattamenti si basano su presupposti errati è molto difficile che portino ad un miglioramento delle condizioni del paziente a prescindere dal tipo di terapia applicata.
Di seguito troverai una semplice scaletta che ti sarà utile per evitare gli “errori di percorso” più comuni che si commettono nella definizione di trattamenti con tecnologia tecar in caso di epicondilite. L’abbiamo creata insieme agli specialisti del nostro network e ci è sempre utile quando dobbiamo definire un programma applicativo.
1- DOVE DOBBIAMO ANDARE? LA DIAGNOSI INDICA L’INDIRIZZO
Sembra scontato dirlo, ma lo diciamo ugualmente… Partiamo dalla diagnosi! Leggiamola attentamente e immaginiamo il percorso terapeutico che ne potrebbe conseguire. In caso di assenza di diagnosi troviamo il modo di procurarcela.
2- PRIMA DI “PARTIRE IN QUINTA” CAPIAMO SU CHE STRADA CI TROVIAMO
Un primo passo fondamentale per “azzeccare” il trattamento più adatto al paziente che ci si trova di fronte è quello di capire da cosa è generato il sintomo doloroso:
si tratta effettivamente di un’infiammazione in corso o è più semplicemente legato ad una risposta meccanocettica indotta dai recettori localizzati nella fascia muscolare profonda che corre lungo l’articolazione del gomito? Sembra una domanda scontata ma questa è la prima indicazione utile del nostro “navigatore” clinico immaginario che ci dirà che strada di trattamento prendere al primo bivio che incontriamo.
Eseguire un pacchetto di “pain provocation test” per riprodurre i sintomi del paziente può essere una buona idea per capire se c’è un muscolo in particolare che provoca il dolore se attivato o compresso.
Anche misurare o percepire la temperatura nella zona dell’epicondilo confrontandola con le zone adiacenti può darci indicazioni utili. Le mani sono dotate di termorecettori sofisticatissimi ma per chi è appassionato di tecnologia, ormai ci sono videocamere termografiche integrabili con il tuo smartphone che hanno costi abbordabili e che hanno la sensibilità sufficiente a fornirci informazioni aggiuntive utili a identificare uno stato infiammatorio acuto o sub-acuto in atto.
3- SE ABBIAMO IL SOSPETTO CHE CI SIA EFFETTIVAMENTE UN PROCESSO INFIAMMATORIO IN CORSO È IL CASO DI “VEDERCI (ANCORA PIÙ) CHIARO”
In questo caso l’ecografia e il colordoppler possono venirci in aiuto non solo per delineare meglio la diagnosi ma anche per conoscere più dettagliatamente la condizione dei tendini che originano dall’epicondilo.
È visibile un edema peritendineo? Come si delinea l’ecogeneità del tessuto periferico e profondo? Come sono allineati i fasci terziari e secondari del tendine? Si vede una vascolarizzazione intratendinea? La risposta a queste domande ci dà un’indicazione su diversi elementi: quanta energia sarà necessaria? Possiamo permetterci di fare incrementare la temperatura del tessuto o dobbiamo scongiurare qualsiasi incremento termico nella zona infiammata? Saranno necessarie delle mobilizzazioni? Saranno necessarie tecniche di frizione per “scollare” il paratenonio dal tendine vero e proprio? Possiamo sottoporre il tendine a carichi importanti o ci troviamo in una situazione in cui è meglio evitare sovraccarichi?
4- SI PARTE… MA QUANTO TEMPO ABBIAMO PER ARRIVARE?
Se abbiamo fatto i calcoli giusti fino a qui, ora sarà difficile sbagliare strada però dobbiamo fare i conti con il tempo a disposizione… Quanto dedicheremo al paziente per ciascuna seduta e per quante sedute lui è disposto a vederci?
Queste informazioni sono essenziali per definire i parametri dell’apparecchiatura. Dovremo accelerare il più possibile perché abbiamo poco tempo a disposizione o possiamo prendercela un po’ più comoda? Questo è un punto importante da capire: di solito i protocolli standard che vengono definiti a priori non tengono conto della situazione personale del paziente e dell’organizzazione della clinica.
Cosa accade se il protocollo dice che devo fare 3 trattamenti questa settimana ma il paziente potra venire solo due volte? Cosa accade se il protocollo mi dice di applicare una certa quantità di energia alla quarta seduta ma nel frattempo il paziente è incorso in una riacutizzazione non dovuta alla terapia? Se si dispone di strumenti che permettono di misurare, controllare e modulare l’energia trasferita è possibile invece contestualizzare il protocollo… E’ così che un protocollo diventa un programma di trattamenti “su misura” per la persona che ci troviamo davanti.
5- LUNGO IL PERCORSO
Trattare un’epicondilite in modo generico con “tecarterapia” senza considerare i punti precedenti, con un protocollo unico, sarebbe come mettere una persona bendata al volante mentre segue le indicazioni di cosa fare al telefono. Durante la terapia e tra un trattamento e l’altro sarà fondamentale verificare il feedback del paziente e in caso di assenza di risultati riconsiderare la strategia di trattamento. Se la diagnosi è corretta e la strategia di trattamento è coerente, è certo che vi siano dei miglioramenti evidenti tra una seduta e l’altra. In caso contrario significa che non stiamo considerando qualche variabile importante.
Alcuni riferimenti di paragone
Una volta verificato:
- che si tratta effettivamente di una tendinopatia dei tendini di ancoraggio all’epicondilo (ad esempio dell’estensore radiale breve del carpo);
- in che fase della degenerazione si trova il tendine “incriminato”;
- quanto tempo abbiamo a disposizione per ciascun trattamento;
abbiamo tutte le informazioni necessarie a definire un programma di trattamenti che possa invertire il processo degenerativo del tendine, supportare la riparazione del tessuti, riducendo la sintomatologia dolorosa.
A titolo meramente esemplificativo: in base ai dati clinici forniti dagli specialisti che usano le nostre apparecchiature, per una peritendinite con principio di tendinosi senza intaccamento strutturale dei fascicoli fibrillari, in 3 sedute distribuite in una settimana dovremmo essere già in grado di ridurre del 70% il dolore del paziente e vedere riassorbito quasi completamente l’edema peritendineo. In caso di tendinosi in stadio avanzato il numero di sedute e il tempo si allungano ma siamo comunque in grado di invertire il processo degenerativo nell’arco di 4-6 settimane avendo cura di fissare delle sedute di “richiamo” nel periodo successivo a distanza di 2 settimane, arrivando a coprire un periodo complessivo di 8 settimane.
Il contenuto di questo articolo presuppone l’utilizzo di uno strumento tecar in grado di:
- trasferire energia a livello profondo senza avere surriscaldamento cutaneo;
- misurare l’energia effettivamente trasferita nell’unità di tempo;
- misurare la corrente effettivamente applicata;
- garantire quantità di energia modulabili e potenzialmente elevate sia in capacitivo che in resistivo;
- concentrare l’energia in punti ben identificabili o in aree estese a seconda della necessità;
- stimolare il tessuto anche in assenza di incrementi termici;
- evitare la perdita di energia dovuta al surriscaldamento dell’elettrodo di ritorno.
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